Avventure tedesche d’un usignolo italiano (da L’Unione Sarda)
Una piccola stanza dalle luci discrete, piante, fiori, libri e tanti quadri. In un angolo, quasi nascosti, preziosi album di vecchie fotografie e una decina locandine della leggendaria Scala milanese. Al centro della scena, la bella signora, dal sorriso giovane e un po’ ironico, sfoglia distrattamente un quotidiano ingiallito. Poi, ad un tratto, una voce da soprano, che sembra un campanellino d’argento, sguscia da un giradischi a racconta re gli incanti del «Paese del sorriso». Ed é subito magia.
Cosi con Lia Origoni “l’usignolo italiano” come l’avevano soprannominata i giornali tedeschi del ’42, inizia i1 viaggio a ritroso, fra i ricordi dolci-amari di una carriera artistica durata oltre 30 anni. Cantante lirica prima, poi attrice di prosa e soubrette, Lia, ha mietuto successi in Italia e all’estero, anche nell’operetta, passando indifferentemente dalla Scala di Milano a quella tedesca, dal «Moulin Rouge» di Parigi al «Wintergarten» di Berlino.
Scoperta per case dal mitico tenore tempiese Bernardo Demuro, la soprano ebbe la prima e per lo meno insolita audizione, a 14 anni, a Caprera, davanti alla tomba di Garibaldi, dove Demuro l’aveva sorpresa a canticchiare una romanza. Entrata a pieno titolo, come allieva, al teatro dell’opera di Roma, nel ’38 cantava già in Manon e Turandot, dopo aver
vinto una borsa di studio da mille lire al mese. Nel ’39 approdo alla radio (allora Eiar) con regolare contratto anche per concerti alla Tv sperimentale.
Il fascino dell’operetta e l’anima un po’ vagabonda, la spinsero ad abbandonare momentaneamente tutti gli impegni, per andare a bussare alle porte della compagnia Toto-Magnani. Delegato all’audizione fu l’impresario Epifani che, sbalordito, registrò l’incredibile richiesta (per quei tempi) della Origoni, di un compenso di 300 lire al giorno. I «grandi» percepivano appena sulle 100, 150 lire a spettacolo.
Accettò comunque di ascoltarla. Decise di interromperla soltanto quando, per due volte consecutive, l’acuto di «Tu che m’hai preso il cor» staccò letteralmente un pezzo d’intonaco dal soffitto.
Fiori, lettere, omaggi di ammirazione ma anche, piccole e grandi invidie per la ragazza di provincia che ormai faceva il tutto esaurito ai botteghini e poi l’avventura tedesca, dove il giorno dopo straordinario concerto del 2 novembre del ’42, i giornali di Berlino scrissero: «Lia Origoni ha diviso ieri il successo con Tito Schipa». E il 6 febbraio del ’47, a Milano «alle 21 precise», come recita la locandina della Scala, fu l’indimenticabile «Flora» nella Traviata. Regista, l’allora giovanissimo Giorgio Strehler, maestro concertatore e direttore, Tullio Serafin.
Con i nuovi trionfi, iniziarono però anche le amarezze. Prima sotterranea, poi sempre più esplicita, nell’ambiente teatrale la parola «collaborazionista», arrivò sino ai direttori artistici. Le lunghe tournée in Germania e in Polonia avevano già anni prima, instillato in troppa gente il seme del dubbio su presunti rapporti si diceva «troppo amichevoli», con alti ufficiali di Hitler.
A La Maddalena, si sussurrò per lungo tempo, di misteriosi messaggi cifrati, inviati attraverso i concerti radiofonici. «A me. Che avevo rifiutato una cena a Berlino, soltanto perché era prevista la partecipazione di Goebbels. Il quale ironicamente poi, mi fece pervenire un libro sull’arte italiana, lamentandosi pubblicamente per la mia grande scortesia». Soltanto anni dopo e dopo essere stata fermata ben tre volte per indagini, dalla polizia milanese, la soprano riuscì a scoprire che l’origine dei suoi guai aveva anche un nome: Franco Fabrizi. L’attore, a quei tempi iscritto alla «Decima Mas» frequentava da fervente ammiratore, il suo camerino, proiettando anche su Lia le ombre di una vita non proprio politicamente limpida. «L’invidia e la cattiveria avevano fatto il resto».
Le mani curate dell’artista accarezzano l’aria quasi a scacciare i vecchi e fastidiosi fantasmi. «Non ha più importanza, la mia carriera è finita soltanto quando l’ho voluto io».
Chiusi gli spartiti, Lia Origoni «stacca» definitivamente da un ambiente che forse non ha più nulla di nuovo da darle. Apre una sartoria di alta moda e sempre più spesso ritorna a La Maddalena, la sua isola. Mai più una nota, mai più uno sguardo indietro. Oggi per ricordare un passato fitto di avventure e disavventure resta solo un busto di gesso che la guarda un po’ assente dall’alto di una mensola. Le é stata regalata dall’Accademia delle belle arti di Berlino. Ogni tanto però, il lampo di un’emozione; ma forse é solo un brivido.